Credere obbedire condividere
È sempre interessante studiare come le persone rispondano all’arrivo delle informazioni, in questo caso le notizie della guerra russo ucraina.
Ritornano una serie di meccaniche di retorica viste centinaia di volte per ogni dibattito social: dalla frangia “certo, ora vi stracciate le vesti per l’Ucraina, ma dove eravate voi quando [aggiungere conflitto a caso]?” fino agli ossessivo compulsivi che – a guardare il loro profilo – sembrano avere una necessità fisiologica di postare frammenti, link, meme relativi al conflitto.
Questo gruppo in particolare è interessante perché è capace di postare dieci, quindici post al giorno sugli stessi temi, filtrando ogni contenuto che non sia in linea con la loro idea. Vogliono convincere Facebook della bontà della loro scelta ideologica con un florilegio selezionato del proprio pensiero o di altri.
Sono cascami della “post verità”: non cerco informazioni che possano mettermi in difficoltà, ma voglio solo essere confermato in quello che sostanzialmente so già. Non cerco la verità, perché l’ho già scelta, devo solo collezionare le conferme.
Mi ha colpito stamattina il post di una persona (credo un reporter indipendente) che sta mandando messaggi su diversi social dai luoghi di guerra dell’Ucraina. Sono messaggi in controtendenza e disegnano un conflitto dove i soldati ucraini sono azoviani e i civili vittime prima di tutto della milizia ucraina.
È una fonte che – come storico – prendo con le dovute pinze: le fonti riportate sono anonime, non si sa bene chi e quante siano, in mezzo ci sono storie non confermate di fonti indirette. Diciamo che è una narrazione filorussa, utile, che è bene conoscere, ma che va vagliata confrontandola con altre per avere un quadro più ampio possibile.
Ecco, mi ha colpito nei commenti uno che diceva qualcosa del tipo “ah finalmente qualcuno che ci dice quello che i telegiornali non hanno il coraggio di dire, finalmente qualcuno che ci dice le cose come stanno”.
In realtà il commento poteva essere scritto meglio: “ah finalmente qualcuno che scrive la verità che ho già scelto”. L’idea che questa persona, che è sul posto e racconta quello che vede, sia comunque una fonte al pari di tante altre che arrivano, non c’è.
L’idea che una persona che è sul posto dica la verità, è un’aspetto molto ingenuo, storicamente parlando. c’è questo libro, per me molto importante, che ho già citato mille volte, “Verba manent” di Contini e Martini, che insegna come fare raccolta di fonti orali.
E la cosa grossa che dice, semplifico, è che quando siamo di fronte a qualcuno che ci racconta qualcosa, qualcosa che ha vissuto in prima persona, mettiamoci nell’ordine di idee che quella persona non ci sta raccontando le cose come sono davvero andate. Ci sta “mentendo”.
Ci sta raccontando il suo storytelling della cosa, l’avvenimento al filtro delle sue idee, dei suoi traumi, dei suoi preconcetti, degli stereotipi che ha in testa. Ogni persona è una fonte, ma non della cosa successa: dell’esperienza di essere stati lì, umani, con tutto se stessi.
Ricordo ancora l’intervista a mia nonna dove alcuni suoi ricordi, precisissimi dell’epoca fascista, ad una più attenta analisi, si era scoperto che non erano suoi, li aveva visti in tv decenni dopo. O persone che hanno rimosso il quando e dove erano durante l’11 settembre, modificando fatti recentissimi della loro vita.
Si posta e si condivide solo ciò in cui si crede: anzi, solo ciò in cui si è deciso di credere, solo i pezzi di puzzle che si attaccano bene a quello che decidiamo di volta in volta di raccontare.
In questo non aiuta la scuola, ne scrivevo qualche giorno fa: le scienze insegnano lo stato dell’arte delle loro materie, le umanistiche raccontano invece la conservazione storica di fatti e opere di migliaia di anni fa.
La scuola dovrebbe usare la storia per insegnare il mondo contemporaneo, le attuali forze in atto, le meccaniche tossiche della comunicazione, lo studio delle fonti giornalistiche, i conflitti aperti, i piombini messi nella terra per equilibrarla a favore di qualcuno e scapito di qualcun altro.
E tutto questo, intendiamoci, dovrebbe farlo per avere poi cittadini in grado di fare di Facebook un posto migliore per tutti.
La chiusura è magistrale. Degna di Zelig
Per il resto condivido ogni parola e ti ringrazio di aver espresso un sentimento che non ero riuscito a mettere “in parole” ad alta voce.
Concordo con tutto ciò che hai scritto, salvo la conclusione. Facebook non può essere un posto migliore, per design del suo creatore. Perché permettere, per esempio, l’espressione di odio verso i russi? È giusto l’esempio più recente.
La scuola, tra l’altro, è un altro refrain tipico (soprattutto di chi ha figli in età scolare), se mi permetti. La scuola, come tanti altri ambienti, è lo specchio di chi la disegna. Se non della società, di chi la governa, la controlla, la vive. La società non è diversa dalla scuola: una influenza l’altra e viceversa. Non vive di vita propria. “la scuola dovrebbe” è illusorio. Finisce per essere un altro modo di scaricare le proprie responsabilità. Non nel tuo caso forse.
Sì, nel mio caso non è un refrain perché ci entro dentro ogni giorno, è più un ragionamento su cosa si potrebbe cambiare, con che margini di lavoro e come