Usare e-ink senza leggere ebook
Recentemente in uno dei corsi di letteratura elettronica è emersa una domanda che di tanto in tanto ancora appare in gruppi di lettura e di auto-aiuto in genere: ma perché fare/leggere ebook su e-ink? Continue Reading →
Eadem sed non eodem modo fare (aka “della generative music”)
Una delle cose che mi ha più affascinato nell’ultimo decennio, nel mondo della musica elettronica, è stato l’esperimento di Gwilym Gold, Tender Metal: un album di musica pop/elettronica basato sulla mai decollata tecnologia Bronze, con la quale un brano ri-arrangia se stesso ogni volta che viene eseguito.
Le canzoni sono sempre le stesse, ma non si ascoltano mai nello stesso modo. Per dirla con Seneca, “Eadem sed non eodem modo facere”.
Tender Metal è stata una delle ispirazioni dirette di alcune sezioni delle mie Poesie Elettroniche.
Ieri ho preso un iPad ottava generazione per riscaricare la App e riascoltarlo e ho scoperto – con un po’ di delusione – che l’App era scomparsa e che non c’era più modo di ascoltare l’album.
Delusione durata poi poco perché – per caso devo dire – sono finito in una pagina (credo non aperta ufficialmente al pubblico perché non trovo nessun modo di arrivarci con un percorso intelligente) in cui tutto l’album è ascoltabile in rete con le stesse caratteristiche rigenerative dell’App di iPad.
Metto qua il link per chi volesse provare: il tasto Regenerate fa partire la musica. O la fa ri-partire, con qualche strumento diverso, arrangiamento differente, microvariazioni.
Temo che prima o poi verrà rimosso anche questo link, quindi: carpe diem e buon ri-ascolto.
La colpa è comunque degli studenti
Ad alcuni colleghi che mi dicevano che non dobbiamo accettare su Meet alunni senza account scolastico e che gli studenti devono tenere la webcam accesa sempre perché altrimenti chissà cosa fanno, alla fine ho detto cosa ne penso della cosa, ovvero che IMHO questa didattica digitale non è digitale.
Che attuare la stessa sorveglianza che abbiamo in classe, a distanza, è un grosso abbaglio didattico.
Abbiamo trasportato la lezione frontale da una stanza chiusa a un canale per fare meeting d’ufficio, tenendo le stesse tempistiche dell’orario scolastico, anche quando non ce ne sarebbe nessuna necessità.
Il digitale funziona diverso.
Io mi metto ogni tanto nei panni di uno studente che si sveglia alle otto meno dieci, si siede con uno smartphone davanti e poi resta a sentire una voce in low-fi che parla a scatti per sei ore di seguito. E a guardare un video con una faccia in primo piano che parla a scatti.
Sei ore.
Io quando seguo i corsi di Coursera, da studente, dopo tre ore sono alla frutta, ho bisogno di staccare, rilassarmi e riprendere più tardi e parlo di corsi in asincrono con esercizi, interruzioni, audio perfetto, che seguo con un portatile di fascia medio alta.
Figurati questi qua che ci devono stare dietro con connessioni alla sperindio, cellulari Android che collassano dopo tre/quattro ore perché non sono certo nati per fare videoconferenze per tempi così lunghi o il disagio di chi dovrebbe farmi i compiti di italiano con la tastierina dello smartphone e l’autocorrezione di Android.
Si finge che la scuola italiana abbia dato a ogni studente un notebook adatto per la connessione e la didattica digitale, che ogni scuola abbia una gestione ineccepibile delle mail scolastiche e del supporto a distanza, che ogni appartamento abbia connessioni di rete a banda larga.
Anzi, si pretende che gli studenti partecipino a questa finzione collettiva, pena l’accusa automatica che siano loro in colpa, che non ne abbiano voglia, che ci marcino sopra.
Che poi, anche fosse, è nella natura dell’uomo farlo. Semmai dovremmo meravigliarci che così tanti non lo facciano.
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Avventura in classe
Avventura in classe è una brevissima avventura che ho realizzato in Twine per provare a parlare di narrazione/gioco in una seconda professionale, nel periodo della “didattica a distanza”.
I ragazzi, specie al biennio, giocano costantemente ai videogiochi, declinati nella loro versione “partita di pallone”: si vedono tra un’ora e l’altra (o durante le ore) ad Among Us, o altri giochi in rete, in rapide partite socializzanti.
L’idea era di mostrare come anche la scrittura possa creare gioco narrativo, con tecniche non troppo dissimili da quelle del videogioco. Come già avevo fatto con Una visita al museo si possono riutilizzare strumenti tipici dei videogame (punteggi, sfida, interazione) per acquisire competenze digitali e di narrazione.
Se Una visita al museo era un gioco interattivo in cui gli studenti si sfidavano per ottenere il punteggio più alto (e – mia soddisfazione personale – al mio invito a staccarsi perché era finita l’ora, mi hanno chiesto di continuare per arrivare alla fine), l’esempio di Avventura in classe mi è servito per chiedere, agli studenti che avessero voluto, di provare a scrivere loro una storia in Twine.
Il risultato sono state sei storie di Twine, molto semplici, ma che hanno messo alla prova una competenza di gaming narrativo che difficilmente si esercita a scuola.
Le avventure sono state date in pasto al resto della classe che, su un foglio condiviso di foglio di calcolo, ha valutato poi i diversi aspetti delle storie (bella storia, scrittura, interattività) facendo anche un lavoro di valutazione tra pari.
Mostro questi piccoli esempi non solo per dare qualche idea in questi mesi di DDF (didattica digitale forzata), ma anche per dire che – no – la didattica digitale sincrona non è migliore di quella asincrona, né più socializzante. Al contrario. È molto spesso uno scimmiottamento dei tempi, delle modalità e delle sorveglianze che si fanno in presenza, rivoltate nel digitale.
La costruzione di unità didattiche digitali, l’uso dei tempi asincroni, l’uso soprattutto di piattaforme in cui lo studente possa fare cose, pensate per l’interazione tra gli studenti e non per attività di ufficio e riciclate per la scuola, ecco, questi sarebbero punti di partenza importanti per fare sempre didattica nel digitale.
The Longing
The Longing, programmato dallo Studio Seufz nel 2020 si apre con questo antefatto: il nostro signore, un enorme re di pietra, si sta per addormentare nelle cavità del mondo. Deve riposare, per 400 giorni. Lascia noi, una piccola ombra nera, con il compito di risvegliarlo al termine del sonno.
Cosa è The Longing, Un videogioco? Una simulazione? Un gioco di esplorazione? Una parabola?
Iniziando a giocare ci troviamo di fronte a uno strano platform che ingloba al suo interno i meccanismi del gioco di simulazione e quelli della avventura punta e clicca, in cui il tempo di gioco coincide con il tempo reale. Se, per dire, ci troviamo di fronte a una roccia che ci blocca il percorso e vogliamo provare a romperla con il piccone, il protagonista del gioco ci avvertirà che serviranno almeno due ore per farlo. E saranno due ore reali. Se diciamo al protagonista di leggersi un libro di Nietzsche, lui si siederà e lo aprirà e ci troveremo di fronte al testo integrale di “Thus Spake Zarathustra”, e il nostro personaggio inizierà a leggere girando le pagine, o aspettando che noi le giriamo per lui, leggendo con lui il libro…
The Longing è anche un gioco che sappiamo già quando finirà: fra 400 giorni.
Non un giorno di più, non uno di meno.
Almeno così ci viene detto all’inizio del gioco.
Dopo qualche ora di gioco l’impressione che si ha è che il programmatore abbia infilato in un frullatore Pitfall II, Sim City, Lemmings, Lifeline, Little Computer People e un tamagotchi e abbia premuto il tasto di accensione.
Il tempo in The Longing – in realtà – non corrisponde esattamente al nostro tempo, pur essendone legato. C’è un contatore che indica quanti giorni, ore, minuti e secondi mancano al momento in cui dovremo risvegliare il nostro re, ma questo contatore non è sempre allineato al tempo del lettore/giocatore.
Quando il personaggio si rilassa o si diverte, il tempo passa più velocemente. In altri posti, al contrario, il tempo letteralmente, non passa mai.
È dunque un tempo variabile, non propriamente uno spazio-tempo, ma un tempo che esiste e muta a seconda di quello che il personaggio fa.
Resta però ancorato al nostro: qualche notte fa un piccolo ragno stava tessendo una tela sulla quale la mia ombra sarebbe passata. Ma a mezzanotte e mezza la rete del ragno era ancora troppo fragile per sostenere il mio peso.
Così ho chiuso il portatile e mi sono addormentato.
Stamattina sono sceso al piano di sotto, ho messo su il caffè, ho riaperto il portatile e – nel corso della notte – il ragnetto aveva terminato la tela. Il mio personaggio si era addormentato anche lui, per terra, l’ho risvegliato e così abbiamo potuto proseguire il cammino e scoprire altre parti del sotterraneo.
Man mano che il tempo scorre The Longing continua a rompere gli schemi del videogioco.
Ad un certo punto il mio personaggio di The Longing è morto. Male. Sono rimasto a fissarlo riverso a terra mentre aspettavo che il programma mi dicesse che il gioco ricominciava, o da che punto sarebbe ripartito il salvataggio. Invece è apparsa una scritta che diceva che la mia fuga dalla solitudine era stata un fallimento.
Che la mia anima si era ammutolita.
Sono uscito dal gioco, l’ho riaperto e mi ritrovato di fronte al mio cadavere. Il gioco non poteva andare vanti perché il protagonista era morto. E, come nella vita, non c’è sempre modo di rimediare.
Non solo The Longing inserisce il tempo facendo sì che il gioco continui anche quando non giochiamo, ma prevede anche la fine del tempo. La morte è un finale di partita.
Ci sono altre cose molto belle in The Longing: la cura nei suoni, la funzionalità della grafica, il senso del mistero di un mondo da svelare e capire, il rapporto con il mondo esterno, le paure e le angosce del protagonista e la possibilità di vincerle. Alla fine The Longing è un gioco che parla del ruolo che abbiamo scelto nella vita di tutti i giorni, di quello che desideriamo davvero, della possibilità di fare delle scelte e di come queste scelte – spesso – sono irreversibili.
Un gioco apparentemente piccolo e semplice, con un gameplay lentissimo, ma che scardina le normali meccaniche del videogioco, riprende idee e progettazioni diversi dell’idea di mondo, e le mette assieme, in maniera organica, per creare un mondo coerente e originale, con misteri e luoghi che solo con grande pazienza si possono – forse – svelare.
Recensione a PÈCMÉN su Argonline
Corre l’anno 1984. Nel circolo ACLI di Sant’Olcese, in provincia di Genova, arriva il primo Pac-Man. Nel 1984 smartphone e laptop ancora non esistono, e quindi il videogioco giapponese giunge, sotto forma di cabinato, a bordo di un Ape car. La solenne sfilata – un funerale al rovescio di un’entità inanimata pronta a prendere vita – avviene sotto gli sguardi incuriositi dei ragazzi, intenti a giocare a pallamuro col loro Super Tele. Tra questi c’è Fabrizio, protagonista e autore di questa storia, che Pac-Man lo conosceva già. Fabrizio è un ragazzino comune, preso dal giocare coi vermi nell’erba e incantato dai telequiz di Mike Bongiorno prima in RAI e poi su Canale 5, che però ha il potere di sbirciare nel futuro.[continua a leggere su Argonline]
Intervista al sottoscritto in cui parlo di PÈCMÉN, librogame, generazioni, anni ’80
Come già scritto durante la recensione, ho letteralmente bisogno di un aiuto per sciogliere un nodo che da sempre c’è nel mio pensiero, figlio della mia ignoranza e dei miei limiti: come si sposano, come convivono un programmatore e uno scrittore? Nella mia idea uno è freddo e calcolatore, l’altro caldo ed emotivo… quindi, in soldoni, che analogie ci sono tra programmare e scrivere?
Io credo che il piacere della programmazione e il piacere della scrittura abbiano dei punti in comune. C’è in entrambi il lavoro su qualcosa che piano piano prende forma, composto di diverse parti che devono trovare tra di loro corrispondenze e che – alla fine – diventano un prodotto autonomo che “fa qualcosa” quando viene utilizzato. Scrivere codice è appassionante, ti consuma, ci pensi e ci ripensi, affini il codice, lo ottimizzi, editi e puoi lavorare a un progetto per anni, un po’ come avviene con la scrittura.
Alcune cose che volevo dire sulla didattica a distanza
È uscito recentemente uno studio della Bicocca sulla didattica a distanza, o meglio, un giudizio su questa esperienza/covid della didattica a distanza intitolato appunto La didattica a distanza dal punto di vista dei genitori.
Guardando i dati sono rimasto un po’ perplesso. Prima di tutto, il titolo è fuoriviante. Non si tratta di una visione della didattica a distanza dal punto di vista dei genitori, ma della didattica a distanza dal punto di vista delle mamme, e specie delle mamme del nord e centro italia.
Il campione infatti è piuttosto disomogeneo: le mamme sono il 90% degli intervistati, e queste mamme per il 70% sono piemontesi, lombarde e emiliane (più qualche ligure). Il nordest italia non è stato campionato, e il restante 30% viene dal centro italia (20%), e dal sud (10%).
Ora, i dati sono comunque interessanti e testimoniano una difficoltà che però — secondo me — ha poco a che vedere con la didattica a distanza. So di banalizzare i dati della bicocca, ma credo che sia una banalizzazione utile: il dato che emerge più forte è che le mamme, specie le mamme lavoratrici, hanno difficoltà a lavorare se i figli non vanno a scuola.
Il problema di questa ricerca non è il campione disomogeneo, ma che non entra davvero nel discorso della didattica a distanza e — soprattutto — limita a un insieme molto circoscritto, le mamme del norditalia, il giudizio su quello che si è fatto con la didattica durante in covid.
Credo che una ricerca su quello che si è fatto con la didattica a distanza debba toccare tutti gli attori che sono stati protagonisti di questo esperimento scolastico: prima di tutto gli studenti, poi i docenti, poi la scuola con i suoi dirigenti e infine i genitori. E le domande che IMHO vanno poste devono essere un po’ più significative. Quali competenze si sono passate ai ragazzi durante il lockdown? Quali conoscenze? Che strumenti si sono utilizzati? Con che risultati? Quali strumenti nativi digitali, che in classe in genere non si riesce ad utilizzare, si sono potuti usare? Quali limiti software e hardware sono emersi in questi mesi e quali risorse?
Perché sulla didattica a distanza ci sono molte confusioni e molte isterie. Innanzitutto, come giustamente mi ricordava ieri su Facebook Valerio Cuccaroni, la didattica a distanza non esiste. Esiste una cosa che potremmo chiamare didattica digitale, che è altra cosa e che — IMHO — è un punto importante che la scuola dovrebbe aver già inglobato da anni e che invece resta ai margini della vera scuola, quella in classe, in presenza, con i gessetti e la lavagna.
Ora, tra le cose che faccio nella mia vita c’è anche quella di insegnare italiano e storia nelle secondarie superiori. Quello che sto per dire sono alcuni ragionamenti limitati alla mia esperienza diretta in questa fascia d’età dei ragazzi. Credo che primaria e secondaria inferiore necessitino di altre riflessioni, che lascio fare a chi ci lavora e ne sa più di me.
La prima riflessione è che la cosiddetta didattica a distanza è stata in realtà una didattica di emergenza. Su questo ho già scritto ad Aprile, nel mezzo del lockdown, e credo che già allora i problemi di questa confusione lessicale fossero ben chiari. Su questo primo punto non aggiungo altro.
La seconda riflessione è che la didattica digitale dovrebbe essere un normale strumento quotidiano per chi vada a scuola nel 2020. Che accanto alla scuola analogica, sia necessario creare delle unità trasversali di studenti che accedono a contenuti, videogiochi, esercizi, fonti, videolezioni, strumenti on-line, preparati dai docenti della scuola, calibrati sul singolo studente, che non sostituiscono la lezione in presenza e nemmeno la affiancano, ma costituiscono un percorso parallelo di apprendimento che lo studente possa seguire quando e come vuole.
Non so quanti di voi abbiano seguito Mooc, corsi a distanza digitale. Io seguo spesso quelli di Coursera e mi trovo di fronte a una piattaforma, per quanto perfettibile, che mi permette di seguire i docenti delle migliori università del mondo, a costi irrisori (se non addirittura gratuitamente), con videolezioni, esercizi online, correzione tra pari, forum di discussione tra studenti e tutor, testi di approfondimento, con argomenti che vanno dalla storia babilonese alla programmazione di videogame in Python.
La cosa che trovo affascinante e funzionante in questi corsi è il taglio.
Differentemente da diversi corsi universitari nostrani, non sono sono mai incappato in un docente che parlasse per un’ora, mal microfonato, a braccio, accompagnato – se va bene – da slide che vengono lette in monotono dal docente stesso.
I docenti preparano invece questi video con grande attenzione ai tempi. Calcolano sempre con cura le cose che andranno a dire e la quantità di informazioni che passeranno. Non c’è mai una ridondanza di contenuti, ma piuttosto si sceglie un taglio basso, talvolta anche divulgativo, ma che permetta di affrontare un tema ed esaurirlo nel tempo scelto. I video sono girati in maniera professionale, c’è movimento di camera, editing.
Il tempo: i video sono brevi. Difficilmente superano la mezz’ora, spesso sono abbondantemente inferiori. Possono essere visti con calma, o affrontati negli spazi interstiziali della giornata. Non essendo conferenze live, possono essere visti e rivisti, interrotti, navigati.
Di tanto in tanto il video si interrompe e appaiono quiz a risposta multipla che ti aiutano a capire se hai compreso bene le cose che sono state appena dette.
È un modello che mi piace, richiede impegno ma offre alla fine conoscenze spendibili. Non è un modello perfetto: il video è uno strumento utile per molte cose, non tutti i corsi offrono dispense che possono essere utili per fermare meglio quello che si è ascoltato.
I video sono in genere tutti in lingua inglese, e questo è un ulteriore vantaggio.
Questa per me è una didattica a distanza funzionale, ben preparata e utile per chi la segue.
Ecco, nella mia testa la didattica digitale non è una telecamera che riprende il docente in classe con camera fissa per trasmettere le immagini confuse e l’audio inascoltabile a ragazzi rimasti a casa, ma una costruzione preparata e sapiente di modelli di apprendimento che sfruttino tutto il ben di dio di conoscenza e di risorse che ci sono là fuori, dietro alla lavagna del castigo.
PÈCMÉN
È uscito il mio nuovo romanzo, PÈCMÉN, per i tipi di Blonk. Grazie all’infaticabile lavoro e stimolo di Lele Rozza questa idea di libro, che mi ha tormentato per un decennio, ha trovato una forma compiuta.
Cosa è PÈCMÉN?
La storia di un ragazzino che si trova a vivere in un piccolo paesino dell’entroterra e che si prende di petto tutta la forza d’urto degli anni ottanta: gli home computer, il BASIC, i videogiochi, i Librogame, la Fininvest, i cartoni animati giapponesi, il mercato. E nello stesso tempo vive tutto quello che c’è fuori: la bestialità, gli odori, l’adolescenza, le bande, l’angoscia, il sesso.
Sembra la storia di formazione di un nerd, ma è piuttosto il racconto di come si è trasformata una generazione, delle nuove estetiche che sono arrivate a ridisegnare il nostro gusto, delle icone che hanno preso il posto di quelle degli anni precedenti.
Lo trovate sul sito dell’editore, su Amazon, un po’ dappertutto.