Impressioni da Game Happens, Elements Of Change, Festival Internazionale di giochi indipendenti
Sono stato oggi al Game Happens, Elements Of Change, Festival Internazionale di giochi indipendenti.
Purtroppo non ho partecipato alle conferenze (peraltro alcune interessanti), ma sono andato a vedere l’Exhibition Area, dove erano a disposizione dei visitatori diversi videogiochi e alcuni giochi da tavolo.
Il Festival era organizzato a Genova, all’interno di villa Bombrini, al piano terra, al primo piano (con una installazione) e al secondo piano.
Entrato ho girato un po’ per l’algido piano terra, algido nel senso che faceva freddino. Non c’erano molte presentazioni, i videogiochi erano installati su computer e il Venerandi si spostava dall’uno all’altro per provarli.
Tutti i videogiochi che sono riuscito a provare erano decisamente story-based, in alcuni casi fin troppo. Non ho trovato videogame che mi abbiano colpito dal punto di vista sperimentale, anche se alcune cose mi sono sembrate interessanti. Cito a caldo alcuni titoli che mi sono segnato nelle tre ore di gioco.
Alt-Frequencies è stato uno dei più intriganti perché lavora soltanto sul sonoro: si viaggia tra frequenze radio, ascoltando stazioni commerciali e strani messaggi pirata. Si capisce esserci un mistero di natura politica ma questo deve essere scoperto dal giocatore usando solo il registratore e la radio virtuale con cui si ascoltano le onde radio.
Così Football Drama sembra un curioso mix tra simulazione di partite di calcio, gioco di carte, fumetto a bivi e hypertext fiction. Forse uno dei più eleganti come gameplay.
Ghost on The Shore è un tipico esplorativo in 3D con l’idea, non banale, di avere il protagonista posseduto da uno spirito con il quale dialoga e che partecipa, come comprimario al gioco stesso. Si viaggia nel mondo e contemporaneamente si parla con lo spirito, a volte in maniera passiva, a volte scegliendo le risposte tra una rosa di possibilità.
Paratopic mi ha colpito perché non si capiva niente, sembrava di viaggiare tra frammenti di film in low-fi, in lunghe scene cinematografiche in cui non succedeva nulla. Del mazzo del piano terra è forse quello avrei voluto studiare meglio. Mi ha ricordato, per alcuni aspetti, Virginia, ma più sporco e meno comprensibile.
Al secondo piano era molto d’impatto, ma con un gameplay frustrante, After Hours, che mescolava videocam reali “artefatte” digitalmente, con pagine di documenti word, chat, pagine facebook per descrivere una ragazza che da bambina aveva sofferto di molestie e che ora soffriva di “borderline personality disorder”.
Sembrava anche molto interessante A. The Wanderer, ma l’ho sempre trovato occupato (ho gufato) e l’unica volta che sono riuscito a prendere posto si è inchiodato il menù di avvio. Da rivedere perché il sistema di interazione a menu mi aveva molto incuriosito. L’ambientazione, se ho capito bene, era popolata da droni/robot che discutevano di identità.
In mezzo, diversi videogiochi narrativi (Answer Knot, Before I Forget, Bird of Passage, From Head to Toe, Milk Way Prince…) tutti molto interessanti ma alcuni molto “lineari”. Talvolta il gioco mi è parso – di fatto – un hypertext fiction con immagini e animazioni. Se il gameplay mi ha lasciato diverse volte perplesso, la narrazione non è quasi mai banale: la modalità con cui Milk Way Prince, per dirne uno, ha descritto un approccio omosessuale mi ha molto colpito.
Ho speso poi diverso tempo (forse troppo) per Something For Someone Else, innervosendomi moltissimo. L’idea di partenza è intrigante, ma sono rimasto bloccato nel lunghissimo primo livello (un banale platform 2D) senza riuscire a vedere se il meta-gioco avrebbe poi portato a qualcosa di più interessante del livello “simbolico” d’inizio.
Decisamente diverso rispetto a quello che c’era intorno è Stereophyta. Un gioco in cui non ho capito nulla, c’è un omino che gira in un mondo 3D con una serie di attrezzi da giardinaggio, ma era affascinante il comparto grafico e soprattutto i suoni che emergevano quando il personaggio interagiva con gli elementi di questo mondo.
E infine, e stavo per perdermelo perché non avevo riconosciuto i nomi degli sviluppatori, ho sperimentato Cricoterie, il lavoro di teatro in realtà virtuale degli autori di Tale of Tales (sì, quelli di The Graveyard e di Sunset).
In pratica sono entrato in una stanza circondata da pannelli di plastica e – dentro un ragazzo – e una ragazza (reali) (spero) mi hanno messo una maschera VR e due specie di “joystick” sensoriali, uno per mano. A quel punto mi sono trovato in un teatro deserto con un armadio di fronte. Aprendolo sbucavano fuori oggetti sgradevoli e curiosi che potevo piazzare dove volevo per il palco. Ogni volta che richiudevo l’armadio apparivano altri oggetti.
Alla fine gli oggetti danzando ritornavano dentro l’armadio e croci precipitavano sui posti vuoti del teatro.
L’immersione VR era interessante, l’uso delle mani e lo spostamento per la stanza era – in alcuni momenti – coinvolgente e imbarazzante, specie quando avevi a che fare con “oggetti” umanoidi grossi come te che ti venivano addosso e che dovevi spostare in giro.
Altre cose, come i giochi da tavolo, non sono riuscito a provarli.
Alla fine della fiera, esperienza che ripeterei e che mi fa piacere vedere a Genova. Unico rammarico, mi avrebbe fatto piacere avere più informazioni sui giochi a cui stavo giocando, parlare con gli sviluppatori, chiedere delucidazioni, così come sarebbe stato più coinvolgente avere notizia dei convegni in svolgimento anche nella sala Exhibition Area, in modo da poter scegliere di lasciare l’area e assistere ai convegni. Forse non ho trovato io questi stimoli e queste indicazioni, ma la mia partecipazione è stata forse più passiva di quanto l’ambiente avrebbe meritato.
Certo è palese come il videogioco stia maturando un proprio linguaggio autonomo e nello stesso tempo capace di saccheggiare altri media, dal cinema alla fiction scritta, rielaborandolo in maniera originale. Di questo riparlerò appena avrò tempo di scrivere una recensione di Tacoma che ho recentemente finito.