Portal
Qualche notte fa, essendo febbricitante, non riuscivo a dormire, allora ad un certo punto ho deciso di dare una occhiata a questo videogame del 1986, Portal, che mi ero segnato “da controllare” per alcuni recensioni che avevo casualmente letto.
Quando dico che stabilire l’inizio della letteratura elettronica è peggio che stabilire l’inizio del medioevo, eccolo qua: Portal, ai miei occhi, è un romanzo di fantascienza costruito come un database ad accesso organizzato.
Siamo tornati sulla terra dopo cento anni e non c’è più nessuno. Riusciamo ad accedere ad un terminale che ci permette di andare in giro per il Worldnet, troviamo vecchi messaggi, si parla di un virus, di una guerra.
Ad un certo punto troviamo Homer. Homer è una intelligenza artificiale programmata per fare storytelling. Si nutre dei sensori collegati alla rete Worldnet per generare narrazione. Ma non c’è più nessun umano, niente storie da raccontare. E Homer non può accedere a dati sensibili senza l’aiuto umano, per questioni di privilegi del database.
Il database è organizzato per tag: psicologia, storia, medicina, educazione, geografia, supporto vitale. Qualcuno ha cancellato quasi tutti i dati.
Inizia allora questo scambio tra il protagonista e Homer: l’intelligenza artificiale inizia a sbloccare contenuti che noi possiamo leggere, e leggendoli diamo materiali di narrazione a Homer che è *nato* per raccontare storie. E vuole raccontarci cosa è successo alla terra.
Il linguaggio, l’idea, la disinvoltura con cui è gestito il tutto me lo fanno sembrare un prodotto incredibilmente avanti sui tempi. Peccato che non mi fosse finito fra le mani in quegli anni.