Minit o delle meccaniche del videogioco
Ho finito qualche settimana fa di giocare a Minit. Bianco e nero, grafica 8-bit, suoni perfetti, gioco da febbre, personaggio che – qualunque cosa tu faccia – ogni sessanta secondi muore, boss finale con tutti i rismi e i crismi del boss finale, mondo folle che vive in una mitologia del videogioco, pezzi dannatamente difficili, da fare e rifare alla nausea per arrivare a finirli al secondo, mappa tutta da scoprire, apparentemente senza logica, in realtà che segue una logica frammentata ma precisissima, nascosta c’è anche una storia e tante sensazioni.
C’è questo impasto delle meccaniche dei videogiochi anni ottanta, della grafica, delle estetiche, esasperate dal bianco e nero che creano una specie di videogioco del videogioco, muscolare, basato sul continuo voler tentare di capire quello che i programmatori hanno escogitato per noi, e rifarlo, aggiustare il tiro, e rifarlo, girare in tondo e rifarlo e ancora finché non si entra in sintonia con il disegno dei programmatori e si va avanti.
Ecco, Minit è un piccolo tripudio del videogame e funziona perché è pieno di invenzioni; pur attingendo a piene mani dalla letteratura del videogioco non cade mai nella sciatteria della riproposizione meccanica di canoni manieristi, ma stupisce anzi per il linguaggio immediato e moderno.
È come se gli autori di Minit fossero riusciti a proporre un gioco ambientato negli ambienti in cui si svolgono i videogiochi, come se esistesse un mondo, una estetica e una percezione condivisa di questi luoghi abitati stranamente, abbandonati, pieni di logiche che legano fra loro le cose.
Dopo averlo finito avevo trovato poco più del 50% degli oggetti e quindi sono tornato ancora ad abitarlo perché c’erano sono posti in cui non ero ancora andato e c’era una piovra che aspettava ancora quattro dei suoi tentacoli. La fine del gioco non collima con la fine di tutte le storie che sono dentro al gioco.
I videogiochi restano lì, abitabili, provano a nascondere i loro segreti. E il desiderio di questi segreti è talmente forte che – talvolta – dura decenni: e lì fa scoprire anche quando non sarebbero esistiti (grazie a Emilio Pozzolini per la segnalazione del video)