Vivere mille vite e altri mostri di fine livello
Ho finito di leggere Vivere mille vite di Lorenzo Fantoni. È un testo che ho letteralmente divorato, che consiglio a chiunque sia interessato al mondo dei videogiochi, e che mi ha fatto riflettere su diverse cose.
È un testo facile da leggere e alla fine della lettura si sa qualcosa di più dei videogame e della loro storia, delle tante sfaccettature di un mondo che ha appena iniziato a camminare e sta già creando cose importanti e grosse.
Perché la storia di Fantoni sarà anche familiare (e lo è) ma è prima di tutto una storia dei videogiochi, qualsiasi percorso si decida di prendere alla fine si avrà una idea della nascita, dei problemi e dei progressi di questo nuovo media.
Mentre leggevo il testo, ad un certo punto, mi è anche successa questa cosa, che mi sono messo a pensare a che tipo di videogiocatore io sia e su quale sia davvero il mio rapporto con i videogame. E questa domanda mi è nata perché mi sono reso conto che il mio rapporto con i videogame è completamente diverso da quello di Fantoni. E che c’è anche una mezza generazione di distanza.
Perché mentre leggevo i capitoli su Street Fighter II, Doom, Super Mario, Pro Evolution Soccer, World Of Worldcraft, GTA mi rendevo conto che stavo inanellando tutta una serie di titoli che all’epoca avevo sinceramente disprezzato. È stata una specie di pena del contrappasso: più avevo snobbato all’epoca un titolo più il Fantoni si prodigava a spiegare il perché quel titolo fosse imprescindibile.
E mi sono chiesto un po’ il perché e credo che ci siano tante cose che si sovrappongono: la prima dicevo, generazionale. Io ho iniziato a giocare ai videogiochi nei primissimi anni ottanta. E ho giocato a centinaia e centinaia di videogiochi in un lasso di tempo brevissimo. Un po’ come Obelix che cade nel paiolo.
Quando sono arrivati i videogame degli anni novanta, io mi ero già spostato. Mi ero già bruciato e – davvero – non ricordo di aver giocato a nulla almeno fino al 1999. E poi io non avevo un Commodore, o un Amiga. Non avevo nemmeno uno Spectrum un Atari, né un Colecovision. Io avevo un Apple II. Non era una macchina da giochi, non era nemmeno un home computer.
Da un certo punto di vista il grosso dei videogiochi a cui giocavo erano già “indie”: piccoli, piccolissimi di cui scambiavo i titoli accanto ai giganti della Br0nderbound o della Electronic Arts.
Era un rapporto complesso: da un lato mi arrivavano titoli di piccole software house, o – addirittura – listati da ricopiare a mano, vivendo in un territorio nerd tra la programmazione e la curiosità nello scoprire le centinaia di modi in cui, in quegli anni ottanta, il mondo del videogioco veniva interpretato.
Dall’altro lato però leggevo riviste, vedevo la propaganda, subivo anche io il fascino del titolo che nel passaparola circolava in giro. Potere installare sul mio Apple II gli stessi giochi che vedevo al bar o sui Commodore e Sinclair dei miei amici, era un modo per esserci, per abitare il mio tempo e i prodotti culturali digitali che in quel momento diventavano mainstream. Questo però non significava che – da subito – non si sviluppasse una estetica e una critica dei prodotti stessi.
Anche in questo momento di immediata verginità digitale, seguivo quello che mi piaceva e lo facevo finché trovavo dei motivi di interesse per farlo.
Leggendo il libro di Fantoni mi sono reso conto che c’è un grosso settore del mondo del videogioco del quale onestamente non me ne frega di meno. Il settore più muscolare, più videoludico “puro”, più di intrattenimento e più legato alle dinamiche mainstream.
Confrontandomi con il racconto di Vivere mille vite mi sono reso conto che la fetta più grossa del mondo del videogioco mi è aliena, ma non da oggi. Se mi volto indietro e cerco i titoli che mi hanno dato qualcosa, di cui ricordo ancora la passione nel proseguire nella storia, ecco che arrivano titoli che avevano un plot, per quanto talvolta ingenuo: Pitfall II, Escape From Rungistan, Avventura nel castello, Prince of Persia, Loom, Another World, MDK, Tomb Raider IV.
Forse per questo il cambio di marcia dell’ultimo decennio, i videogiochi indie che se ne fregano dell’adrenalina e dei riflessi sportivi per me sono stati una folgorazione. Il Firewatch che cita Fantoni è una delle poche epifanie tra le pagine digitali del suo libro.
Ecco, questo confronto con l’autore, con la sua storia, parallela ma nello stesso tempo così diversa dalla mia, è stata utile perché quella di Fantoni è una descrizione personale ma nello stesso tempo con i piedi per terra: fotografa in maniera ricca il complesso e disarticolato mondo dei videogiochi mettendo, specie nella seconda parte, il dito in alcune ferite che questo mondo nasconde dietro le scaglie di high score, skill & skin: un universo estetico gracile, figlio di una tecnologia instabile e in perenne mutazione, in cui gli adolescenti sono già boomer a loro insaputa e dove la frenesia ormonale dell’intrattenimento forzato porta a scontri di massa di persone rabbiose, sole e fragili.
C’è un ultimo punto di interesse nel libro di Fantoni: come il mio PÈCMÉN è un libro che decide di raccontare e di trasformare in letteratura l’esperienza di conoscenza, partecipazione, compresenza, amore e passione nei confronti di questo nuovo media che è il videogame. E non si tratta di un caso isolato: sono sempre di più i testi scritti da persone che si voltano indietro e iniziano a guardare quello che hanno fatto, istintivamente, e cercano di formalizzare il perché, il come, il quando. Che cercano di raccontare l’impatto che un media nato per intrattenere e per mostrare i muscoli dei microprocessori ha avuto e sta avendo su un campione sempre più ampio di persone. Che cambia il loro modo di pensare, di rapportarsi con gli altri, di sognare.
È un segno di tante cose, ma quella che mi interessa di più, è quella dell’identità: il videogioco ha alle sue spalle decenni di storia, di sviluppo, di maturazione e di progressiva ricchezza di linguaggio: questi testi servono anche per iniziare a tenerne conto, a prefigurare una conservazione non solo del bene digitale, ma anche delle sue estetiche e delle migliaia di storie personali che si sono generate e che sono sempre vissute al margine, un po’ per vergogna, un po’ per proteggersi. E invece è l’ora di uscire allo scoperto.