Realismo Capitalista
Ho finito di leggere Realismo Capitalista di Mark Fisher e mentre leggevo avevo questi momenti in cui ero francamente scettico e altri in cui c’erano delle vere e proprie epifanie su cose che – non solo pensavo – ma che avevo scritto anche io, a mio modo.
Una di queste era legato al mondo della fiction, del racconto. Di come, guardando le fiction tv, e spesso anche leggendo romanzi, mi trovassi spesso di fronte a una specie di standardizzazione di alcuni sentimenti base. Come i gusti dello yogurt. Cose che tutti si aspettano che i buoni pensino, quelle che tutti si aspettano che i cattivi pensino. Non una rappresentazione del reale, quanto un vero e proprio manuale ad uso telespettatore/lettore per mostrare una gamma limitata e rassicurante di quello che le persone sentono. Emozionale, di stomaco, mai dirompente. Sempre integrata.
Questo modo di pensare, di ragionare con il manuale del lessico standard per le masse è uno dei miei problemi con Facebook. Voglio dire: quando scrivo qualcosa su un social network in me convivono due venerandi: uno vorrebbe rompere la macchina in cui è entrato, l’altro scrive e mentre scrive – consciamente – inizia a utilizzare tutti gli strumenti di scrittura standard che immagina porteranno a un certo numero di like e di condivisioni. Ho dentro la testa una serie di cose e mi metto lì e le converto in un linguaggio standard da like Facebook.
Ora, questo passaggio non è solo una cifra stilistica, ma determina anche di quali cose io parli sui social network e di quali non dica nulla. Non è una cosmetica retorica, ma va a toccare le cose di cui è bene o non è bene parlare in rete, se vuoi avere dei like. Se una cosa non è digeribile dalla scrittura piana, comprensibile e un po’ ruffiana dei social, tanto vale non scriverla perché poi non prenderebbe like, non verrebbe condivisa.
Il primo venerandi, quello a cui piace rompere le macchine, in genere non prende like.
Non è un argomento da poco perché questa standardizzazione del lessico sociale è la stessa standardizzazione del lessico emozionale della fiction. Si tratta di un processo di normalizzazione estremamente rischioso e contraddittorio per chi scrive perché va a toccare un altro argomento sensibile: ma io perché scrivo? Quali sono gli obiettivi che mi pongo quando mi metto davanti a una tastiera?
Se sono un intellettuale cosa mi aspetto da quello che sto facendo con la scrittura? Che strategie sto attuando e per che finalità. Se la finalità è solo l’ego personale, ok, ma è davvero solo quello?
La seconda epifania è quella che riguarda il non tempo che stiamo vivendo per quel che riguarda gli oggetti culturali pop che ci circondano. Qui il discorso è più confuso, il mio dico, e cercherò di riassumerlo con due o tre parole: Disney, supereroi, anni ottanta. Guerre stellari, Avengers, Marvel & DC, remake di remake, live action di cartoni e viceversa, Stranger Things e altri prodotti che sembrano voler allungare la coperta di questo meraviglioso dopoguerra che ci capita di vivere. La riproposizione di canoni, la variazione su temi e immaginari ormai digeriti da più di una generazione, i ridicoli multiversi che ci vengono proposti non sono solo una agghiacciante mancanza di fantasia e di coraggio, quanto piuttosto il desiderio di restare in questo sistema di valori il più a lungo possibile. Restare con i buoni e cattivi il più a lungo possibile, con la calzamaglia il più a lungo possibile, nella magia dell’informatica per nerd il più a lungo possibile. Perché questo soffocante effetto nostalgia per una generazione, la mia, che ha visto sotto ai suoi occhi la realtà cambiare?
Forse perché non è cambiata abbastanza. Perché le rivoluzioni che avevamo visto implicite nel dominio dell’informatica alla fine sono state disinnescate in corso d’opera e trasformate in una specie di televisione interattiva. Le intelligenze artificiali non vogliono dominare il mondo, ma capire se mandarci la reclame delle Nike o delle Rebook. La disintermediazione che potevamo avere è stata presa in prestito da alcune aziende sovrannazionali: ci hanno messo tutti assieme, ci hanno dato dei modelli standard in cui scrivere, con lunghezze standard, con font standard e colori standard e alla fine scriviamo in questo posto blu concetti standard con reclame standard sui lati. E hanno reso questa specie di inferno un’esperienza terribilmente appagante. Perché farla smettere?
Gli altri universi possibili sono dei calchi di questo qua. Non c’è niente di radicale, non ci sono modi diversi di vedere il mondo e la felicità. Se qua non abbiamo trovato la felicità possiamo provare nel prequel o nel sequel. Ma immaginarsi un altro mondo possibile è uno sforzo culturale, estetico, politico, davvero dispendioso.