Metaverso, sto arrivando
Qualche giorno fa raccontavo agli studenti come la tecnologia si diffonda per sperimentazioni e fallimenti e come esistano avanguardie tecnologiche di nicchia che si perfezionano, cambiano, trovano mercato e prendono posto, spariscono nel nulla.
“Provate a indovinare la prima volta che ho indossato un visore vr” gli ho chiesto, e loro hanno risposto boh, cinque anni fa, dieci.
Ho fatto i miei calcoli mentali e ho detto no, “la prima volta che ho provato un visore vr è stato trent’anni fa“. A Gradara, festival dei giochi, c’era in anteprima questo gioco di combattimento che usava il visore vr. Lunghissima coda per fare una partita e provarlo, l’avevo fatta. Funzionava, era un po’ lento quando si girava la testa da una parte all’altra, la densità dei pixel era piuttosto bassa. Emozionante vedere che la tecnologia stava andando in una direzione, anche se si capiva che c’era molta strada ancora da fare.
Stasera ho provato per la prima volta l’Oculus Quest 2 di meta, che a dire il vero non è mio ma di mio figlio secondogenito. L’abbiamo aperto e ho provato due o tre cose di startup, la configurazione dello spazio vitale, la visione di qualche video vr. Sciocchezze rispetto a quello che può fare, ma già queste sciocchezze sono impressionanti.
La ricostruzione di mondi a trecentossessanta gradi, con questa risoluzione, con questa rapidità nel feedback visivo, è il frutto germogliato di quella piccola cosa acerba che avevo visto trenta anni fa. L’impressione di essere in un ambiente interattivo e di poterlo potenzialmente vivere.
Per questo fa ancora più effetto quello che succede quando si arriva al bordo del proprio spazio di sicurezza: appaiono delle griglie che mostrano i confini del mondo realmente abitabile. Se – come nei film di fantascienza – si infila la testa oltre a quel confine appare, in bassa fedeltà e bianco e nero, il mondo reale: la tua stanza, il caos della tua vita, le persone incuriosite che ti guardano.
Il mondo reale è digitalmente brutto.
Basta uno scatto indietro per tornare nell’habitat colorato e sonoro creato dall’Oculus. Rassicurante. Questa cosa fa paura e nello stesso tempo affascina. Le potenzialità di un oggetto del genere sono davvero superiori a quelle che avrei potuto immaginare leggendo le recensioni.
Mentre sono lì che guardo Bjork che cammina attorno a me e canta in questa landa desolata ricostruita attorno a me, penso che – è così – dovremo tenere a mente la paura e il suo fascino. Conviveranno assieme, a braccetto con i contenuti esclusivi, la creatività e la sua amputazione commerciale. La tecnologia è questo blob mutaforma che procede portando con sé il meglio e il peggio di quello che siamo.
Ma starne fuori è impensabile.