Come è nato Scosse?
Come è nato Scosse? Come nasce l’idea di una poesia elettronica?
Intanto credo che sia necessario l’habitat mentale. Quando in classe leggo i poemi ariosteschi o del tasso, dico talvolta, ma pensate questa gente che racconta storie e lo fa tutto in ottave di endecasillabi e ne scrive a migliaia, quando noi avremmo difficoltà a buttarne giù una decina. In realtà dico, non è così difficile se lo fai sempre nella tua testa. Se pensi in edecasillabi, dopo un po’ ti viene naturale pensare con quel ritmo, è – banalizzando – un flow anche quello.
Così la letteratura elettronica. Le cose più sperimentali che ho fatto di letteratura elettronica sono – da un certo punto di vista – banali, informaticamente parlando. Si può fare molto di più. Ma ho sempre preferito partire da cose informaticamente semplici ma letterariamente vergini, perché c’è comunque un vasto territorio da occupare dove è stato fatto poco e nulla.
L’habitat, dicevo. Per me che sono cresciuto a pane e informatica di base, che facevo (male) il liceo con il suo latino e greco e intanto programmavo (male) in Applesoft Basic o in Prolog i miei videogame narrativi, che mi facevo di videogiochi a pacchi e che esploravo la rete quando ancora internet era da venire (in Italia almeno), ecco, certe cose sono naturali.
È ovvio vedere e pensare ambienti narrativi o parole in mutazione nel tempo o nello spazio. Le ho sempre viste accadere.
E poi l’idea che a me affascina sempre molto della commistione di domini differenti. Credo che alla radice di Scosse ci sia una chiaccierata avuta una quindicina di anni fa con Enrico Colombini, il quale – parlando di giochi testuali per smartphone – mi disse, vedi a me piacerebbe fare un’avventura dove c’è un racconto che dice – per dire -che un oggetto è caduto in una grata per terra, non puoi raggiungerlo, allora tu volti il cellulare e il racconto cambia, dicendo che per il cambio di gravità l’oggetto è uscito fuori.
Colombini è sempre stato avanti, comunque, quell’idea mi aveva colpito e poi Enrico non l’ha realizzata e io nemmeno, ma ad un certo punto stavo scrivendo un articolo sulla narrativa che cambia a seconda del tempo, dello spazio e dei sensori e mi è tornata in mente.
E ho pensato, però, che succederebbe se non la applicassi a un gioco ma a una poesia? Come potrebbe cambiare una poesia che legge i sensori dell’hardware con cui è letta? I più facili li avevo già usati nelle poesie elettroniche, il touch dello schermo e l’orologio interno, facendo poesie che interagivano con il lettore o che accendevano e spegnevano i loro versi a determinate fasce orarie.
Scosse usa invece l’accelerometro. La difficoltà qui non è tanto tecnica, ma di senso. Come posso dare un senso poetico, lirico, a questo meccanismo per non farlo diventare un semplice “effetto speciale” della letteratura? Perché scuotere il cellulare dovrebbe cambiare i versi e cosa dovrebbe venirne fuori?
La prima soluzione era stata quella erotica: siccome scuotere lo smartphone assomiglia al gesto della masturbazione maschile, allora faccio sì che ogni scuotimento porti diversi versi erotici. Però poi parlando del meccanismo con Matteo Galiazzo (e forse anche con Dodero) venne questa idea della dinamo che si carica di versi, più la scuoti più aumenta il suo vocabolario di base.
A questo punto l’idea al suo zenith. Ho un meccanismo complesso, una dinamo che si carica letterariamente e poi – poco a poco – si scarica, e devo solo scrivere i versi che devono apparire e poi scomparire sullo schermo. L’idea della scomparsa dei versi più vecchi, quindi dell’unicità della scossa (ottenuta grazie al localstorage), ha poi suggerito l’ultima idea: la poesia cambia significato man mano che si scuote, passando da una poesia inizialmente erotica, poi di dolore, di distacco, di critica sociale, di sofferenza sociale e umana.
Questo attraverso un meccanismo di panning del numero di versi di ogni verso. Questo non l’ho scritto: la poesia ha solo quattro versi, ma ogni verso ha centouno varianti possibili, per un totale di quattrocentoquattro versi scritti, e un numero di combinazioni possibili che non ho voglia di calcolare.
L’ultimo punto è quello letterariamente più interessante: ma come scrivo quattrocento e rotti versi che cambiano facendo in modo che tengano conto del cambio di significato e che varino progressivamente, funzionando assieme il più possibile?
Questa è stata la parte più complessa della scrittura, ovvero il popolamento del database (in realtà una lista). Qui non c’è informatica, ma pratica poetica: l’idea è che nessun verso dovesse aver bisogno di quello prima e quello dopo, ma avesse una microautonomia tale da poter funzionare con quello che lo precedeva e lo seguiva. Anzi, progettando che alcuni incontri di versi che da soli dicevano poco, dicessero molto.
Questo ‘funzionare bene’ è stato ottenuto con una scrematura lessicale, quasi un morphing dal verso a quello dopo, in modo che i quattrocento versi sembrassero una specie di salmodia, una serie di curve gaussiane che si succedono, lavorando sui lemmi, sul ritmo e sulla parcelizzazione degli elementi di disturbo (che pure ci sono).
Ogni singolo verso significa poi poco, ma abbastanza, ed è scritto tenendo sempre un occhio ai versi già scritti prima e dopo, in modo che il suo inserimento non fosse mai troppo brusco e non fosse percepito come alieno rispetto al resto.
Scosse è la prima di alcune cose che ho terminato in questo 2024 e che usciranno fuori nei prossimi mesi, non so ancora bene come o dove. Questa, intanto, chi la vuole leggere la trova in questa pagina.