L’informazione in rete, le BBS, Facebook, quello che siamo.

Mi trovo la mattina nel letto con il mio ebook reader a leggere un articolo in inglese sulla situazione politica del Myanmar. Una voce meccanica legge il testo, io leggo con gli occhi, ogni tanto fermo la voce, seleziono un paragrafo che non mi è chiaro e chiedo all’ebook di tradurmelo. Vado avanti per una quindicina di minuti e poi chiudo. Penso cose su come l’occidente sia cieco rispetto alla vita di nazioni che stanno dall’altra parte del mondo, di come si arrocchi a difendere un localismo territoriale che poi – di queste nazioni esotiche – fa uso inconsapevole quando gira in rete, quando compra, quando sfrutta le nuove tecnologie.

Ma poi mi ritrovo nel mio letto e penso a come questa cosa che ho appena fatto, stare nel letto a leggere in e-ink notizie del mondo, con voice over e traduzione online, sia il punto di arrivo di qualcosa che sognavo negli anni ottanta. Quello che avevo pensato che l’informatica sarebbe diventata quando accendevo il mio Apple II, lo collegavo al mio primo modem 300 baud, mi attaccavo al filo telefonico e poi mi connettevo alle prime BBS genovesi, ecco, quella cosa che nel 1987 sognavo come una specie di avanguardia tecnologica, oggi è diventata uno standard, per una parte di mondo.

Eppure, penso, questa avanguardia realizzata costa sforzo per essere utilizzata. I distrattori del mondo digitale sono enormi e sono diventati essi stessi portatori di informazione. Mi rendo conto a volte che scrollo le pagine di Facebook cercando informazioni interessanti con cui interagire come le scimmie girano i sassi per trovare del cibo che gli operatori hanno nascosto per fare in modo che non si annoino. E lo faccio quando l’informazione è dietro l’angolo: ci sono tonnellate di informazione che potrei leggere e studiare e che – alla fine – mi restituiscono più di quello che possono darmi gli stimoli di un social tossico come Facebook.

Il problema è che quel linguaggio, quello fatto di microinformazioni da cercare e con cui interagire, è più funzionale e meno impegnativo dell’informazione che – pur provando in tutti i modi a essere interattiva pure lei – continua a essere pensata per una lettura passiva, lunga, immersiva e costosa in termini di attenzione e sforzo intellettivo. Il problema di usare la rete per fare cultura è che siamo stanchi. Ci colleghiamo dopo ore di lavoro, nei ritagli di tempo, nel cosiddetto tempo interstiziale e in quel tempo non abbiamo voglia di studiare, di impegnarci ancora. Vogliamo distrazione, ma distrazione intelligente, perché non siamo stupidi. Ma costruire distrazione intelligente, beh, anche quello è piuttosto costoso in termini di progettazione e realizzazione.

In più, l’interazione è appagante, è più appagante che la fruizione passiva, è anche più appagante di una fruizione interattiva. Creare contenuti, condividere contenuti di terzi, ricevere like, commenti a cui rispondere, notifiche continue che ci fanno capire che siamo al centro di relazioni sociali invisibili e non soli nel nostro letto sotto le coperte a scrivere i propri pensieri, ecco, tutto questo funziona, diventa il centro della nostra vita digitale. Anche qua non c’è in realtà niente di nuovo: quando mi collegavo alle BBS negli anni ottanta, andavo a chattare su QSD su itapac o giocavo ai primi MUD online, era quello il motore che mi spingeva a collegarmi: vedere Ave Princeps che scriveva post e qualcuno rispondeva, entrare in gruppi Fidonet dove potevo dire la mia e essere qualcosa senza forma che aveva idee e a cui altri esseri senza forma rispondevano.

Il digitale online, la telematica, è stata da subito un luogo dove poter far nascere e crescere una parte di noi che non poteva realizzarsi compiutamente nel mondo reale. E quella parte è quella che oggi viene gratificata dai like e dalle notifiche, vero, ma è anche quella che dice la sua, che si confronta, che si perde in thread e discussioni che – attenzione – la identificano, prima di tutto per chi – di quella parte – è il centro generatore. Le discussioni che nascono su Facebook raramente servono per far cambiare l’idea di qualcuno, quanto per rafforzare e formalizzare la nostra idea di mondo, per vederla “nero su bianco” e renderci conto, noi stessi, che dentro di noi c’è un impianto normativo, culturale, intellettuale.

Bello o brutto che sia.

Ah, buon 2025.

31. dicembre 2024 by fabrizio venerandi
Categories: Comunicazione, digitale & analogico | Leave a comment

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