Del come ho amato il computer e del perché lo amo anche oggi
Il primo computer che ho avuto non aveva un nome, sulla scatola c’era scritto MY COMPUTER e sopra non ci girava nessun programma. Era una specie di ibrido tra uno zx-81 e uno spectrum, nel senso che aveva parte dell’hardware compatibile con lo zx-81, ma un case con i tasti gommosi simile a quello dello spectrum. Per più di un anno quindi non ho mai potuto usare un programma scritto da terzi, potevo solo scrivere piccoli script per conto mio, usando il rudimentale basic residente. Avevo circa quattordici anni e il basic residente andava bene.
Compravo riviste per computer: Paper Soft, MC-Microcomputer, BIT, Personal Computer e su molte di queste riviste c’erano i listati. I listati erano in metodo per distribuire programmi, prima delle cassette, prima dei floppy, prima di ogni altra cosa: erano il codice, pagine e pagine di codice da ricopiare, a mano, sul computer. Il medioevo ci ha insegnato un sacco di cose.
In genere non potevo copiare questi listati: erano in basic, apparentemente, ma in realtà prima o poi sbucava un poke
. Il poke
era il comando per inserire numeri direttamente nella memoria della macchina e sostanzialmente serviva per scrivere in linguaggio macchina, più veloce e meno dispendioso in termini di memoria rispetto al lungo listato basic. Se c’era un poke
, lo avevo scoperto a mie spese, potevo anche smettere di copiare il programma, perché la memoria del mio MY COMPUTER era incompatibile con quella dello zx-81
Un giorno trovai un programma, un codice in basic, per zx-81, senza poke. Era una dama cinese. In ascii, naturalmente. La ricopiai a fatica, era molto lunga, e alla fine diedi il RUN per vedere se funzionava e – per la prima volta nella mia vita – mi ritrovai di fronte a un programma scritto da qualcuno che non ero io, e che stava girando sul mio computer. Sul mio MY COMPUTER.
Fu un’emozione enorme. Uscii la sera, portando fuori il cane, e girai per le strade oscure del paese di campagna dove vivevo; ero tra alberi e sentieri, ma nella mia testa c’era il video con le tante ‘O’ della dama cinese. Ero connesso con tutto il codice che stava girando nel mondo, andando di casa in casa, copiato a mano da giovani amanuensi pieni di voglia di vedere quel nuovo che – ancora non lo sapevamo – sarebbe diventata la quotidianità di adesso, che sono qua a quarantasei anni a ripensare a quel momento. Una dama cinese in basic che girava in quel paese, in quella casa all’ultimo piano del salumificio, in quel computer fragile, bianco con i tasti di gomma verde. Era enorme.
Dopo un anno e mezzo ero arrivato ai limiti del MY COMPUTER. I miei amici si stavano comprando il VIC-20, il Commodore 64, lo ZX-Spectrum. Erano arrivati, con tutta la loro forza, i videogiochi. Tutti gli adolescenti, parlo degli adolescenti simili a me, volevano i videogiochi. All’epoca si andava nei negozi che vendevano videogiochi e computer e i commessi dicevano, beh se vuole comprare un videogioco a suo figlio c’è l’ATARI. C’è il COLECOVISION, c’è l’INTELLEVISION. Ma – aggiungevano – è più educativo comprare un computer. Un vero computer in casa vostra. Così vostro figlio gioca, ma impara anche a usare le lingue del futuro, come il basic. Questo passaggio non è facile da spiegare, perché voi sapete cosa è un computer, oggi. All’epoca no, il computer era un oggetto mitologico, cinematografico, fantascientifico. All’epoca il computer non era un computer, era il mistero della modernità, della contemporaneità. All’epoca il computer era un oggetto magico.
Io ero indirizzato verso il Commodore 64, avevo due o tre amici che mi avevano mostrato il potere degli sprite, videogiochi a colori impensabili. Mio padre mi disse, ok, ma prima vieni a provare un computer che ho visto in un posto dove lavoro. E mi porta in questo magazzino che importava cose dalla thailandia e mi mette di fronte al mio futuro Aton II, un compatibile Apple ][+. Era un computer color caffellatte, con un vero monitor a fosfori ambra. Un giallino oro che brillava nel nero della notte. Vidi per la prima volta un floppy disk, lo accesi, sfogliai le fotocopie di un manuale di Applesoft Basic. Infilai dentro un floppy disk con dei videogiochi. Choplifter, Falcon, Autobahn, Horizon V. E le prime due avventure testuali in italiano a cui abbia mai giocato, Conan e Adventure in town. Era meraviglioso. Che ne pensi
mi chiese mio padre, e io gli dissi che era meraviglioso.
Tenni quel computer per un tempo informaticamente lunghissimo, per quasi sei anni. Ci feci di tutto: con lui programmai in Applesoft basic, con lui giocai allo sfinimento, con lui scoprii la telematica, le chat internazionali, il modem, le bbs, itapac, i mud, il cp/m.
Man mano che passava il tempo gli amici che conoscevo che avevano l’Apple II passavano a Amiga, ad Atari. Stava finendo una generazione di macchine e Apple sfoderò una macchina di cui mi innamorai, l’ho già scritto altrove, l’Apple IIGS. Non la ebbi mai: finì soffocata dal fratello maggiore di Apple, il Macintosh. Con l’arrivo del Macintosh si chiuse una parentesi iniziata per me con il MY COMPUTER: quella della programmazione intesa come unico metodo per usare il computer. Il macintosh portava una novità: si può usare il computer con gesti, con icone. Non è necessario programmare. Si può usare il computer per fare quello che si vuole.
Il mito del basic, della programmazione per tutti, silenziosamente, finì in secondo piano e poi sparì per tutti gli anni novanta e per buona parte del decennio successivo. Programmare, da gesto rivoluzionario per tutti, tornava ad essere una cosa per esperti.
Ci credevo anche io.
Qualcosa poi è cambiato. Mi sono trovato a dover programmare alcune cose, a rimettere mano a piccoli script, e poi ad altri meno piccoli. Emergevano cose come linux, Apple passava baracca e burattini a unix. Riscoprivo un mondo che si era congelato con l’arrivo del mouse e delle icone, e mi rendevo conto che non ero il solo. Scratch, python, arduino. Con l’avvento delle App e degli store, ci si rendeva conto da più parti come l’informatica stesse diventando un grosso negozio per consumatori: come una parte creativa dell’essere informatici fosse stata sepolta da anni e anni di sovrastrutture. Di come i nativi digitali fossero privi di strumenti che anche noi avevamo perso di vista.
In questi ultimi sei anni ho divorato un sacco di cose che non conoscevo. Php, XML, XQuery, Python, CSS, Javascript, Mysql: mi sono reso conto di come fosse divertente, appagante e totalizzante perdersi a far fare una cosa che il computer – altrimenti – non saprebbe fare. Di come è bello fermarsi, pensare, scrivere codice e far fare al computer quello che deve fare lui, invece che farlo noi al suo posto.
Nonostante il percorso umanistico non mi sento un estraneo, al banchetto, ma una persona che pensava di essere arrivata alla frutta e invece no. Di fronte all’intoccabile grattacielo degli Os con gestures, ascensori e notifiche geolocalizzate, c’è sempre da qualche parte nascosta una porticina nera, una piccola finestra terminale con cui si può entrare in quel mondo non iconizzato, senza spazio dove silenziose ronzano potenti api.