Qualcosa sui link, sul digitale e sul tempo
[Un post non tecnico che parla a modo suo di connessioni, di digitale e di gestione del tempo. È lo storytelling, bellezza]
Ieri sera capita che si parli di collegamenti, di rete e resto con il computer spento, cellulare spento, tutta la sera. Vado in sala e inizio a svuotare un piccolo mobile di legno, dove teniamo i vinili di una vita fa, li metto da parte e poi prendo l’olio per mobili e inizio a pulire con cura tutto il mobile, poi spolvero i vinili uno a uno. Metà dei vinili sono miei, metà sono di Maria Cecilia.
Ci trovo cose mie che non ricordavo nemmeno di avere più: gli Smiths, i Cure, Les negresses vertes. E tanti dischi strani di Maria, roba scritta in russo, musica classica, canti della rivolta. Un disco, suo insapettato, dei Culture Club. Residui nostri, dei fratelli e sorelle, dei genitori.
Li sfoglio, guardo la grafica come cambia nel tempo, le follie colorate degli anni sessanta, il fintismo degli anni ottanta, qualche lucidità plasticosa degli anni novanta. Cerco di capire qual’è l’ultimo disco che ho comperato. Forse è 7, un singolo di Prince dei primi anni novanta, prima dell’avvento del cd. Forse un acustico di Bennato.
Finito il mobile inizio a mettere a posto la libreria, dopo l’alluvione ancora non l’ho rimessa a posto, i libri sono messi così come li abbiamo tolti dagli scatoloni. Inizio a togliere la polvere quando mi rendo conto di quanta libertà – improvvisamente – abbia. Un senso di libertà come quando posi un grosso zaino pieno di roba e inizi a camminare per il centro senza niente, le mani in tasca.
E capisco che questa sensazione è data dal fatto che non sono connesso. Non sono in rete, non c’è niente che debba condividere, nessun forum da controllare se mi hanno risposto, nessuna mail di lavoro che arriva a tradimento nel momento in cui non dovrei lavorare. Nessuna notifica, niente.
Poi salgo nel letto di secondogenito e leggiamo un libro fumetto game per quasi un ora, fino allo sfinimento.
La mattina dopo sto bevendo il caffè e penso che io me la cavo. So che esiste un mondo non virtuale in cui posso vivere. Non che la rete sia qualcosa di diverso da me. Io sono anche la rete, io sono anche quello che scrivo, quello che commento, quello che condivido. Sono anche il codice che eseguo, sono io quanto quello che parla, che balbetta, che si addormenta.
Ragazzi, dico a primo e secondogenito che stanno sorbendo le loro colazioni davanti a me. Se oggi tornaste a casa e scoprite che manca la luce. Un guasto. Siete a casa con la luce che manca, liberi di fare quello che vi pare tutto il pomeriggio, solo senza luce e avete anche il cellulare scarico, cosa fate?
Ci pensano e – in maniera diversa – mi dicono entrambi che cercherebbero di raggiungere il cellulare/telefono più vicino e chiamare qualcuno da cui andare. Un parente, degli amici.
Ma restare in casa, senza elettricità e quindi – a cascata – niente computer e rete e quindi, ancora a cascata, senza connessione, per loro è impensabile. Appena si spegne l’elettricità a casa subentra la noia, l’isolamento.
Lascio i figli nelle rispettive scuole, entro in questo bar per prendere un caffè e c’è la tv accesa, due tv accese tutte e due sullo stesso canale fininvest, canale 5. C’è una donna casalinga, una nonna, una nonna d’italia che parla, in questo finto ambiente tipico fininvest, le luci elettriche, i colori elettrici, il pubblico finto, il giudice finto, il presentatore finto, tutta questa parodia milanese della vita reale e scorrono le scritte in sovrimpressione che confermano quello che stavo capendo, ovvero donna d’italia che scopre il nipote omosessuale e potranno mai degli omosessuali crescere un bambino? C’è anche l’omosessuale che – finché io sono nel bar dice solo due o tre frasi con la stessa autorevolezza di una comparsa uscita da sense8.
Di colpo mi sembra di essere piombato negli anni novanta, quelli più vuoti, quelli in cui mi immagino che c’è una fetta d’italia fatta di donne che alla mattina alle dieci sono in casa con la tv accesa su canale cinque che mentre fanno le casalinghe sentono questa loro simile che dice che “tutto mi aspettavo meno che mi dicesse che era omosessuale” e poi inquadrature sulle risate, i sorrisi della gente, l’orrore di un lavorio quotidiano di una informazione-non informazione che prende spazio nelle idee della gente così, con un lavoro metodico, sporco, accondiscendente, esibito e nello stesso tempo pronto a ritirare la mano, a nascondersi nelle infinite pieghe degli infiniti mattini di canale cinque.
Ho nausea, reale, nausea di pensare queste cose, di pensare una frase come “fanno le casalinghe”. Nausea di questo mio borbottio borghese. Nausea di essere così smart, così geek, così dead in una nazione che ragiona e macina ragioni con gli stessi strumenti mass-mediatici di mio padre. Persone che – mi racconta Maria – quando gli dici che alla sera non guardi la televisione, che gli dici che sono anni che non guardi il telegiornale ti guarda attonita. “E come ti informi?”.
Negli anni ottanta mi collegavo alle prime bbs genovesi e poi la cosa è esondata, molto diversamente da quello che pensavo, molto di più di quanto avessi immaginato. C’è una seconda informazione, digitale, ad accesso libero, casuale come si dice in informatica, che ha cambiato completamente il modo di rapportarsi alle cose. Negli anni ottanta sognavo cose che oggi, timidamente, iniziano ad essere una realtà. Una realtà che si trascina dietro altri nuovi problemi; di persistenza dei dati, di distrazione, di saturazione del tempo e delle informazioni, di privatezza delle cose della propria vita, di accentramento di informazioni e di gestione informatica delle informazioni in mano a pochi, pochissimi soggetti sovranazionali.
Eppure non tornerei indietro. Di fronte a quella donna che più parla più invecchia e fa invecchiare il mondo, di fronte a quelle luci colorate senza possibilità di replicare, di spegnere, di rimuovere quel filtro patinato che copre tutto come una glassa soffocante, di fronte a questo grosso pezzo d’italia, il più grosso pezzo d’italia, preferisco continuare ad andare avanti e rimanere in questo baccano, in questo frastuono digitale.
Alla sera sono sulla spiaggia di Boccadasse con terzogenita che butta pietre nel mare e parzialmente a se stessa e a chi la circonda e Maria che parla con persone care incontrate inaspettatamente, quando vedo una ragazza con un bimbo piccolo che mi guarda, mi sorride, si avvicina e mentre si avvicina io la guardo come se – dentro la ragazza – ci fosse qualcosa che riconosco e qualcosa che però no; una connessione analogica, profondissima, umana; e lei viene fino da me e mi dice ma tu sei mica akela? e io la guardo ancora, dentro, scavo e la vedo emergere, il suo viso bambino che mi guarda compito e lei mi dice ancora, ti ricordi di me? e io le dico certo che mi ricordo di te e lei sorride, e aggiunge questo è matteo, il suo bambino che mi spia tra le gambe di lei. “E poi c’è questo” e apre la giacca e vedo la sua pancia grossa piena di un’altro bambino.
“L’ultima volta che ci siamo visti…” inizio.
“Avevo otto anni” dice lei. “È passato un po’ di tempo”.
“Mi ricordo di te, benissimo”
“Eri il mio akela preferito”, dice.
“Mi sento lusingato. E vecchio”
“Non così vecchio, dai. Vieni che ti presento mio marito”.
Così, link improvvisi a Boccadasse.